
Quella sera
Il mio telefono ha squillato dieci volte. L’hai lasciato suona- re fino al trasferimento automatico alla segreteria. Nell’ultima chiamata hai registrato un messaggio strozzato ma comprensibile. La tua voce tremava mentre sprofondavo nel sonno a qualche chilometro da lì.
Erano circa le due del mattino. Mi sembra quasi di sentirti mentre rispondi «arrivo subito» a quella voce atona che si era presa la briga di avvisarci. Chissà cos’hai pensato mentre allungavi la tua mano cercandomi al buio, stupito di non trovarci il mio solito calore, perché la mia parte del letto era vuota. Hai fatto il mio numero.
Niente. Ti vedo: ti sei infilato i pantaloni che avevi abbandonato sulla poltrona e hai riprovato. Nulla. Hai recuperato la maglia e le scarpe e sei corso verso la porta con le chiavi dell’auto in mano. Mi hai cercata due volte mentre scendevi le scale, una al quinto piano e l’al tra al secondo. Nulla. Poi in auto, con il piede premuto sull’acceleratore, hai attraversato una piccola parte della nostra città. Hai urlato: «Maledizione, dove diavolo sei?»; avevi bisogno di me, e non solo tu, ma io mi ero resa irreperibile, di proposito. Nel parcheggio dell’ospedale hai riprovato chiedendoti come facessi a non sentire. Hai attraversato il giardino tenendo sempre il telefono
attaccato all’orecchio, aggrappandoti alla speranza che oltre alla tua disperazione a raggiungermi fosse anche quella di quel luogo. Ma nulla.
Davanti a un’infermiera ti sei arreso e alla mia segreteria hai detto: «Sono in ospedale. Ti prego raggiungimi», poi il pollice sul tasto rosso e il tuo sguardo terrorizzato mi hanno spenta.
Chissà se è questa la sensazione che si prova quando si viene attraversati da una lama. Chissà se puoi guardarti con distacco mentre sanguini perché qualcosa ti ha lacerato la carne. Ho ingoiato l’aria, dopo aver ascoltato la tua voce e compreso che questa volta non sarebbe stato facile spiegare perché non mi trovassi lì.