Ricordo ancora quell’odore. Era l’odore delle cose distrutte. Che fossero case, palazzi, negozi o persone non faceva differenza. La guerra, la violenza riducevano tutto in polvere e la polvere lo sa come arrivarti
alle narici. Quel pomeriggio ero scappata di casa. Sapevo che non avrei dovuto, che sarebbe stato pericoloso per una ragazza ebrea girare da sola in bici per le strade di Budapest. Avrei potuto essere catturata, minacciata o picchiata. Ma lo sguardo di mia madre e quello che le avevo appena visto fare mi avevano riempito
gli occhi di lacrime. L’avevo trovata nel nostro tinello. Il rumore dei vetri e delle ceramiche frantumati al suolo. Li avevo sentiti vibrare fino alla mia stanza. La mamma aveva gettato sul pavimento tutta la cristalleria e le porcellane più belle che possedevamo.
«Mamma! Ma cosa fai?» avevo strillato portandomi le mani alla bocca.
Teneva un vassoio sopra la testa.
«Non voglio che lo abbiano loro» mi aveva risposto poco prima di scagliarlo a terra senza nemmeno guardarlo rompersi.

Poi aveva afferrato un altro pezzo del servizio, portando così tutto quell’odore di distruzione anche dentro casa.
Questa era la guerra.
Guidavo la mia bici alla cieca. Pensavo a mia madre e a mio padre e pregavo che tutto tornasse come prima,
finché non vidi qualcosa muoversi dietro un vicolo.
Si era nascosta.
Appoggiai la mia bicicletta e la raggiunsi. Era una ragazza poco più giovane di me. Se ne stava seduta sul
marciapiede e teneva un libro in mano. Provai una sensazione nuova quando ci guardammo negli occhi. Non avevamo bisogno di dirci nulla. Entrambe sapevamo già abbastanza una dell’altra. Eravamo due ragazzine ebree, costrette a nasconderci e a
metterci sempre in salvo. Aveva i capelli castano scuro e gli occhi profondi, liquidi come quelli di un cerbiatto. Avrei voluto dirle qualcosa, ma le parole sembravano non volere uscire e lasciai che fosse il silenzio
a parlare per noi.
«Ciao» mi disse lei dopo un po’, svelando una voce dolce.
«Cosa stai leggendo?»